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23 ottobre 2013

Sulla giusta strada

 Un mio racconto che verrà pubblicato insieme ad altri 25 scrittori....
 
 Sulla giusta strada
A tutte le strade del mondo che custodiscono l'eco delle nostre vite

Come una palla gialla che rotolava in discesa verso di me. Questo mi ricordo.
Di essermi piegato, di averla guardata da vicino, questa cosa così gialla e poi non così tonda come mi era sembrata da lontano, in contrasto con il grigio dell'asfalto della strada.
Forse è stato un sogno. Perché poi non ricordo più nulla, devo essermi svegliato.
Prima della cosa gialla invece è tutto chiarissimo tanto da sembrare reale, perché è quello che faccio tutte le mattine:girello per la città e poi mi fermo a guardare gli operai lavorare sulla strada:quello con il martello pneumatico, quello che scava dentro la buca, gli altri che preparano i marciapiedi e la rotonda sul viale.
Era una vita che non sognavo più. Anche da giovane non è che sognassi molto e poi anche quando lo facevo non li tenevo a mente i sogni e nel riaddormentarmi avevo già dimenticato tutto.
Deve essere questa nuova giovinezza, il cambiamento d'aria, l'aver lasciato la casa, forse perfino la morte di mia moglie.
Con lei la malattia è stata veloce e quasi indolore, non è mai stata sopraffatta per fortuna, dal dolore intendo o almeno questo è quello che mi è sembrato. Un po' dimagrita sì, i capelli più radi per via della cura e i pomeriggi a letto per riposarsi. Ma alle quattro si alzava e ricominciava ad organizzare tutto, a cucinare, a fare spesa, a stare al telefono con la sorella, ad andare a messa.
Pensavo che la morte fosse più dolorosa. Invece è solo improvvisa. Anche quando la aspetti. Un attimo prima respiri, un attimo dopo non più.
Lei è diventata subito chili di album di foto, una tazza della colazione nel lavello, la pentola degli avanzi di ieri sul fornello spento.
Ma non ce l'ho fatta a soffrire per la sua mancanza, perché Cesira era una donna troppo pratica per potersi innamorare, per avere un qualsiasi trasporto. Anche per farlo provare un trasporto ad un uomo, soprattutto ad uno così tiepido come me.
Via da un momento all'altro i suoi orari, le abitudini, i pranzi infiniti della domenica i brontolii per ogni minimo ritardo, l'accompagnarla dal parrucchiere ogni venerdì, il rito del piegare le lenzuola da stirare per sentirsi dire che non ero bravo nemmeno in quello, tutte le regole, tante regole e inutili che però senza quasi accorgermene mi avevano fatto tollerare la vita che altrimenti era senza senso. Ad ottanta anni insomma mi ero quasi assuefatto alla vita così come la trascinavo da anni.
Una vita di lavoro alle poste. “Laureato in lettere e cartoline” - mi aveva detto una volta con un misto fra disprezzo e scherno affettuoso che mi aveva fatto presagire per la prima volta dopo tanti anni come potesse essere l'amore.
Non si fidava di me, ero un uomo da accudire, senza qualità si direbbe, non sono bravo nei lavori di casa, non sono particolarmente portato per lo studio.
Aveva pensato perfino al suo funerale, delegando tutto a sua sorella che, in casa mia abbracciava, faceva accomodare e preparava il caffè per tutti quelli che venivano a portare le condoglianze. Io stavo su una sedia al pari degli altri e nemmeno piangevo. Nemmeno sapevo dove mia moglie tenesse il caffè, quando me lo ha chiesto mia cognata. Vedete, non avevo diritto di piangere, non ha diritto di farlo un uomo così assente dalla vita reale.
Insomma vi raccontavo prima di quella specie di palla gialla che avevo sognato ieri, del fatto che avessi ripreso a sognare, della mia vita che dopo circa sei mesi dalla morte di mia moglie, era diventata piacevole.
Ma i primi mesi furono i più duri di tutta la mia vita. Non c'è cosa peggiore del silenzio per chi non sa farsi compagnia e proprio questo silenzio che avvolgeva tutto come un sudario mi fece sentire abissi dentro di me.
Il giorno dopo al funerale, quando non fui svegliato dal rumore della colazione, dal gorgoglio della moka, e anche da tutti i rumori che appartenevano alla casa, come gli scricchiolii di notte dei mobili, rimasi a letto, vigile e con le orecchie tese per udire ogni minimo spostamento e suono, quasi ci fosse un ladro in casa. Fu una ricerca vana quel giorno e tutti gli altri che vennero:solo silenzio.
Era lei che produceva rumori e vita. Io ero quello morto. Anche di notte. Non ho mai russato. Capii subito che la casa con il suo silenzio ed io con il mio non eravamo una coppia ottimale.
Io odiavo lei e lei odiava me, tanto che tutto iniziò a rompersi, piccole cose ma continue: rubinetti che gocciolavano, ante che cadevano, piatti, bicchieri e tazze che si suicidavano.
Se l'abitudine mi aveva permesso di rendere la vita sopportabile adesso il silenzio spazzava via tutti quei minuscoli sforzi quotidiani compiuti giorno dopo giorno in ottanta anni Ero come un tronco mangiato all'interno dalle termiti del silenzio.
Un pomeriggio d'estate alle due mi affacciai al terrazzo. Pensai che con il rumore monotono ed assordante delle cicale, nessuno avrebbe sentito il rumore del mio corpo che cadeva sull'asfalto dal terzo piano. Ero deciso.
Poi guardai l'inferriata da scavalcare, l'altezza e pensai che non sarei stato bravo nemmeno a morire.
Questa mia inettitudine mi fece sorridere.
Decisi infatti di vivere. Lasciai quella casa adesso odiata e mi trasferii in un ospizio. Da qui la mia vita vera comincia.
Mi alzo presto e volentieri con fame sana, tanta forza, saluto i dottori, le inservienti, chiacchiero con gli altri ospiti del centro. Ma soprattutto gioisco delle avversità degli altri, non di tutti, ma solo di quelli che hanno avuto un rovescio di fortuna. Quelli che fino a poco tempo prima erano abili, giovanili che nella vita avevano compiuto imprese eroiche, sempre pieni di donne e di amici ed adesso sono invece su una sedia a rotelle con lo sguardo assente.
Io invece che non avevo mai vissuto, che mi ero risparmiato, sto bene. Mai stato meglio.
Non dico che sia una cosa bella questa che provo, ma certo in vecchiaia non si può migliorare. A pensarci bene, nemmeno da giovane i miei pensieri erano buoni, solo che ero troppo pavido per agire in maniera prepotente, crudele o maleducata.
Preferivo che la vita scorresse su di me, senza mai intervenire.
In questa nuova vita mi piace passeggiare la mattina per la città, sentire i profumi, scambiare qualche parola, guardare i lavori sulle strade anche per ore,,.
Mi approprio un po' della vita degli altri. Mi fa sentire meno solo. Mi piace immaginare, che verbo strano per me “immaginare”, sì, immaginare la vita di chi lavora duro, quello con il martello pneumatico per esempio. Immaginare la sua famiglie, i figli, l'odore della sua casa anche che sa di ragù e non di cavolo come la mia. Anche la carta da parati odorava di cavolo in quella casa maledetta.
Anzi, vi dispiace se facciamo due passi stamattina, torniamo a passeggiare sulla
strada dove c'è il cantiere, dove mi è arrivata quella strana cosa gialla. C'è qualcosa di diverso, ci sono dei fiori legati a quel palo. Bianchi e viola ed un nome scritto sulla fascia con cui sono legati: Damiano. C'è la foto di questo ragazzo, giovane davvero, troppo per morire. Mi sembra un viso rivisto. E' che su questa strada siamo sempre i soliti, in macchina o a piedi, una strada tranquilla con il supermercato in cima, famiglie, la scuola, i platani sui lati.
C'è ancora l'operaio con il martello pneumatico e fa meno rumore di ieri. Oggi è solo, gli altri devono essere in pausa, per un caffè. Lui no preferisce lavorare anche da solo, si vede che è un uomo coscienzioso Salvatore. O almeno credo si chiami così perché i colleghi lo chiamano “Tore”.


Stamattina non c'è un'anima, ma così si lavora meglio. Faccio quello che c'è da fare, faccio tutta una tirata che almeno mi levo il pensiero. Ecco, volevo il pubblico, è arrivato quel vecchio sordo...per l'amor del cielo, non voglio offendere, dico solo che chi sopporta lo “strumento”, il martello pneumatico, per forza è sordo o lo diventa presto. Io ho trentatré anni e forse ci sento peggio di lui che ne avrà un'ottantina e che mi guarda dietro alle transenne. Se non ci fosse lo strumento acceso, sicuramente vorrebbe fare pure due parole.
Lui c'è sempre, tutte le mattine. Credo che abiti al pensionato dei vecchi, mi sa che è solo.
Io solo mai. Prego Dio di morire prima di mia moglie, dei miei fratelli, di tutti, perché solo no, io non ce la faccio. Io posso lavorare tre giorni a diritto, non dormire, posso farmi uscire il sangue dagli orecchi, ma resisto. Fatemi fare i lavori più pesanti, ho fatto quindici anni il muratore e ho lavorato ad agosto sui tetti a quaranta gradi perché quando il lavoro c'è bisogna farlo e se la casa si deve consegnare a ottobre, io la consegno ad ottobre. In silenzio e si lavora a testa bassa. E che sarà? Torni a casa, ti lavi, mangi e te ne vai a dormire in tranquillità, a casa dalla famiglia.
Ma la solitudine no. Io non ho studiato e magari quelli che hanno studiato lo sanno come comportarsi nelle situazioni, non fanno i drammi, sono uomini di mondo e tutto gli scivola addosso. Nemmeno gli viene da piangere a loro.
Anche le donne sono più forti per queste cose di noi, hanno più volontà, non si perdono d'animo. A mia moglie, gli è morto il padre da piccola, un fratello si drogava ma poi è guarito. Magari piange, piange anche guarda i film d'amore Rosaria, ma lei è forte e ha un carattere bello. Dice lei che canta sempre durante il giorno a casa. Io non ci sono a casa con lei, ma ci credo. Prima che nascesse Claudio, io dicevo sempre a tutti: quando nascerà nostro figlio, deve avere la forza mia e il carattere di mia moglie.
Quando dovetti chiudere l'impresa edile quattro anni fa e non avevo più un lavoro, lei disse che tutto si sarebbe risolto, che stessi tranquillo, però lei lavorava a fare le pulizie non più da tre famiglie, ma anche in due uffici e tornava a casa sempre tardi. Io battevo la testa nel muro, andavo in tutti i cantieri a sentire se c'era bisogno e tutti scuotevano il capo e dicevano della crisi. E allora andavo a parlare con il sindaco che mi diceva che l'edilizia era in crisi. E che ci voleva una laurea per dire questo? Io volevo solo un lavoro per portare i soldi a casa .
Sentii tutte le agenzie di facchini, di traslocatori, di falegnami, idraulici, tutti lavori che potevo fare o che avrei imparato velocemente. Nulla. Andai avanti per mesi avanti e indietro prima con la macchina a fare chilometri, poi con lo scooter per consumare meno benzina. Ma niente, niente niente. E mi scattò qualcosa nel cervello che non ce la facevo più a fare nulla, nemmeno ad uscire per andare a cercare un lavoro che non c'era, per andare ad elemosinare una giornata di paga, quando tutti mi guardavano come se fossi un perditempo, un disgraziato. Uno che non sa provvedere alla propria famiglia, che lascia che la moglie lavori e porti lei i soldi a casa. Non volevo essere la femmina, ero un uomo senza onore così. Stavo sempre peggio, mia moglie oltre ad essere stanca, era sempre preoccupata e non faceva altro che dirmi a cena ”Cos'hai, cos'hai, vai dal dottore domani” E io le dicevo “si domani vado” per farla stare tranquilla, ma non ci voleva un dottore, ci voleva un lavoro. Non sentivo più Rosaria cantare.
Stavo a casa e mia suocera che qualche mattina veniva da noi a stirare, un giorno mi disse che non era possibile che un uomo grande e grosso come me non trovasse un lavoro. E allora il lunedì che di solito veniva, io trovavo la forza di uscire senza sapere dove andare. Passavo le ore sulla strada avanti ed indietro. Ero fuori di me, nervoso, per ogni minima cosa:urlavo a quelli che mi sorpassavano, mi attaccavo al clacson se quelli davanti andavano troppo piano, come se fossi matto. Una volta ho rischiato di spaccare la faccia ad uno che mi aveva inchiodato davanti ad uno stop. Se avessi avuto un fucile non so cosa avrei fatto, mi spavento se ci penso.
Ma tanto non c'è mai fine al peggio. Pur senza forze, volevo provare a guadagnare qualcosa, provare con le slot machine, che tanto adesso erano sotto casa alla tabaccheria di Michele. Non fatelo mai. Ebbi la sfortuna di vincere: finii i 20 euro della spesa in tre minuti. Ma ne vinsi 30. Il giorno dopo ritornai e ne persi 15, il giorno dopo ancora ne vinsi 20.
Dopo tre mesi avevo bruciato in quel modo tutti i soldi messi da parte per spese e bollette. Lo facevo per la famiglia, avevo l'illusione di poter vincere e di vincere tanto per non far lavorare più nessuno. Mi dicevo che era solo questione di tempo. Mia moglie se ne accorse quando trovò il mucchio delle bollette non pagate che avevo nascosto in fondo ad un cassetto.
Quel giorno decisi che mi sarei ucciso. Da quel momento mi sentii così tranquillo. Accumulavo il materiale in garage, nastro adesivo, plastica, un qualcosa da attaccare al tubo di scappamento della macchina. Mi sentivo di nuovo un uomo. A cena mangiavo, parlavo, mia moglie mi accarezzava le mani e mi guardava di nuovo con orgoglio. Stavo meglio ma non come intendeva lei, contavo i giorni, avevo deciso che fosse giovedì. Ma il martedì a cena mia moglie mi prese le mani come faceva sempre e me le mise sulla sua pancia. “Adesso dobbiamo trovare un nome” e sorrise con le lacrime agli occhi. Io dissi “Claudio” e l'abbracciai.
Quello fu un miracolo. Se mia moglie avesse aspettato a dirmelo, io sarei morto. Come quel ragazzo dell'incidente di ieri, ci sono i fiori qui e la foto, Damiano.
Ce l'avevo sempre avuto in mente quel nome, Claudio, il nome di mio figlio, da quando mi avevano detto che Claudio era un imperatore romano. Io non lo sapevo e per me mio figlio doveva diventare più ricco e più bravo di un imperatore, non doveva vivere come suo padre.
Passò solo un mese da quel giorno che io trovai lavoro come operaio sulla strada. Ora Claudio ha quasi cinque anni e nel garage ci sono i giocattoli di quando era più piccolo.
...Guarda sta passando Antonio, l'autista del 17, no, non mi ha visto. Tra poco passerà anche la signora bella per andare al supermercato, eccola, è ancora più bionda stamattina.



Devo tornare a fare spesa, anche se ci sono stata ieri. Nonostante la lista non ho comprato quasi nulla e per giunta mi sono ritrovata questo sacchetto di plastica tutto rotto. Sembra esploso. Ma passeggio volentieri oggi.
Mi sento così tranquilla, leggera e spensierata come se fossi una bambina. Senza tempo che opprime, senza l'ansia di domani, di un amore che non arriva, di un lavoro da cambiare non appena ho abbastanza soldi. Non è successo nulla di strano tra ieri ed oggi, eppure vedo anche meglio, come se tutto fosse più chiaro, più nitido.
Lo dico a voce bassa perché altrimenti mi direste che sono la solita ottimista che vede il bicchiere mezzo pieno anche quando il bicchiere è in terra in cocci.
Io ho sempre avuto speranza. Ho sempre atteso con speranza che qualcosa cambiasse, a volte l'ho annusato il cambiamento nell'aria, come si annusano i cambiamenti di stagione l'aria appena fresca della fine dell'estate che preannuncia l'autunno, o l'odore dell'estate che arriva con i fiori di tiglio nel giardino condominiale di quando ero piccola.
Ci sono state giornate pesanti, momenti in cui ho detto basta, destini di persone vicine che mi hanno fatto detto che la vita era proprio una gran brutta cosa che non meritava di affannarsi tanto se la fine era quella. Ma sono stati pensieri ingiusti.
Anche quando è toccato a me. Perdere un figlio, di un padre che neppure lo voleva.
A otto mesi. Ne ero io la sola responsabile. “C'è sempre l'imponderabile” mi ha detto il medico quando io gli ho chiesto piangendo perché, dal momento che tutto era sempre andato bene, analisi, peso, misure. Mancava solo un mese.
Imponderabile, è anche bella questa parola, come se il destino si potesse ridurre a qualcosa da pesare, soprattutto a qualcosa che non è possibile pesare e che arriva da un momento all'altro, senza essere annunciato e guasta tutto. A volte aggiusta. Dipende.
Mio figlio aveva un peso invece, era due chili e trecento. Poteva essere caldo, odorare di latte e talco, poteva dire mamma e ha scelto di non nascere. Ha scelto di ritornare quando ci sarà anche un padre da cui essere amato. Ha ragione, piccolo mio. In genere piango quando ci penso. Oggi è come se lui fosse qui con me. Ve l'ho detto, i giorni migliori arrivano, non mi viene da piangere, ma da sorridere come se lo vedessi, biondo come me, con gli occhi che hanno lo stesso colore dei cuccioli dei gatti.
Io ho poche doti, ma una ce l'ho. So aspettare, non mi stanco, sono testarda nell'attesa, Anche se ho scelto non la via più facile, ma quella più veloce per guadagnare. Sono sempre piaciuta agli uomini, forse per questi occhi grandi e chiari che non hanno mai smesso di essere quelli di una bambina, che si meravigliano di tutto. Fuori dalla norma. Le donne ad una certa età hanno gli occhi tristi e basta. Anche stanchi, giusto. Io stanchi, a volte. Come una bambina che ha avuto un pochino di mal di pancia la notte.
Ma adesso a 36 anni posso dire che tra quattro anni mi ritiro e apro un ristorante, un negozio.
L'ho scelto io e non me ne pento. Ho studiato, ho una laurea in sociologia, liceo classico, famiglia benestante che pensa sia correttrice di bozze e lavori a casa. Se ci fosse stato mio figlio sarebbe stato tutto diverso.
Ma adesso andiamo a fare spesa che il sole brilla sulla strada, sono così inutili le parole oggi, quello che sento conta, solo quello.
Comprerò quello che non ho comprato ieri: la frutta, le mele, i pompelmi quelli grandi e così gialli da fare allegria, da tagliare a metà e riempire col riso come faceva mia mamma, il latte, i biscotti, i pomodori rossi e quelli verdi. E poi un mazzo di basilico. Almeno mi pregusto l'odore del paradiso. Perché nel mio paradiso laico ci deve essere solo quell'odore che è quello della gioia della fame dei bambini saziata col pane, pomodoro e basilico.
C'è una salita e una curva prima del supermercato, ma si sta bene sotto ai platani.
C'è una calma assoluta, ci sono pure i lavori su questa strada, c'è un operaio a lavorare, e il solito vecchietto che guarda. Ma non fa il rumore di ieri. Ieri scassava l'asfalto con una rabbia quel martello pneumatico, aveva riempito l'aria di rumore e sofferenza.
Un incidente. Ci sono dei fiori e la foto di un ragazzo, Damiano. Mi faccio sempre il segno della Croce anche se non credo. Abitudine, tradizione. Possa trovare pace, anche quella che c'è su questa strada sotto ai platani, quella che stamattina sento anche io.



Sono venuto a portare i fiori anche io su questa strada, è la mia strada, la percorro in su e giù tante volte con il 17, dalle sei della mattina alle 14 è il mio turno di autista.
Consumo il cemento. Lui invece lo distruggeva per rifarlo. Eravamo simili e avevamo iniziato a salutarci, dopo tre mesi in quel cantiere stradale, sulla mia strada.
Quando lui vedeva l'ombra del mio autobus, alzava la testa dall'asfalto, accaldato e stretto dal caschetto giallo e faceva un cenno con la testa sorridendo, io gli suonavo il clacson in quell'intervallo brevissimo di silenzio. Un bravo uomo, si vedeva.
I suoi colleghi mi hanno detto che avevano visto questa auto che scendeva giù dalla discesa e quando si sono accorti che non girava, hanno cominciato a gridare a Salvatore di spostarsi, di muoversi, di correre, ma lui aveva le cuffie e il martello pneumatico urlava più di loro. La macchina lo ha preso in pieno e ha continuato la corsa falciando un pensionato che era accucciato con un pompelmo in mano.
Doveva essere surreale la scena di questo pompelmo giallo che se ne va per i fatti suoi, quasi trotterellando per andare tra le braccia del pensionato che lo accoglie e non si accorge così della macchina e della morte.
Il pompelmo era parte della spesa della prima vittima, una bella signora giovane e bionda che sorrideva sempre. Anche lei non si è accorta della macchina senza controllo che la investiva scaraventando la borsa della spesa lontano e facendo rotolare via tutto per vari metri.
Il ragazzo della macchina, una punto nero, non era di questo quartiere, andava a lavoro. Un malore, si dice. Porto i fiori per tutti e quattro.

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